A volte abbiamo bisogno di allontanarci per vedere meglio, a volte capita che lasciando le proprie tradizioni poi si abbia il bisogno di ritrovarle, di farle rientrare nella propria vita in una forma nuova. Questo è quello che è capitato a Noda Kotaro, chef del Bistrot64 e vecchia conoscenza della Tuscia, dove ha conquistato la stella Michelin e ha maturato l’idea di una cucina che ruoti attorno a materie prime di altissima qualità.
La sua storia inizia nella prefettura di Ehime, dove è nato, e prosegue all’univeristà di Kobe dove si è laureato in marketing. La cucina entra in ballo durante il periodo universitario, quando per pagarsi gli studi, Noda fa il lavapiatti e inizia a conoscere il dietro le quinte del ristorante. Si appassiona. E arriva al momento del distacco, dell’esplorazione e della curiosità. Inizia a viaggiare, soprattutto in Europa, e comincia a degustare, mangiare, assaggiare, sperimentare, arriva in Italia e qui scatta il colpo di fulmine.
La cucina italiana mi ha convinto subito per la semplicità e per l’immediatezza dei sapori. Quando a Milano ho provato il risotto alla milanese mi ha colpito questo modo di trattare il riso così lontano e diverso rispetto a quello a cui ero abituato. Gli piace a tal punto che, quando rientra in Giappone, finisce da Gualtiero Marchesi a Kobe dove conosce Enrico Crippa che lì è chef resident è stato lui ad aiutarmi poi a venire in Italia. Tre mesi di stage a La Fermata di Casatenovo con Luciano Toma, poi il rientro per un anno in Giappone e quindi a Roma nel 1999 dove lavora nelle cucine di Enrico Derflingher all’Hotel Eden e infine in Friuli, al Gellius di Oderzo con Alessandro Breda. E qui viene contatttato dal nostro Carlo Zucchetti. Siamo nel 2004, Carlo gestisce il ristorante Enoteca La Torre e ha deciso di crescere di livello. Scelta importante e coraggiosa soprattutto nel deserto gastronomico che era Viterbo in quegli anni. Chiedendo ad amici enogastronomi salta fuori la segnalazione da parte di Stefano Polacchi – caporeddatore del Gambero Rosso con origini nella Tuscia – di questo giovane chef giapponese, con ottime qualità tecniche e tanta voglia di mettersi in gioco. E in breve Noda Kotaro si trova catapultato nella Tuscia con una cucina da riorganizzare secondo gli standard della gourmandise. Carlo mi ha insegnato molto, ci siamo scontrati anche tanto – sorride guardandolo – ma è stato lui che mi ha fatto capire l’importanza delle materie prime, del territorio, mi ha fatto conoscere prodotti e produttori e la cucina tradizionale del centro italia che ancora oggi amo per l’uso dell’Olio Extra Vergine d’Oliva e il pomodoro.
Faccia pulita e sguardo determinato si uniscono in Noda a un profondo rigore, ma la sua iniziale imperturbabilità è stata incrinata dalla sfumatura di un sorriso disegnata dalla permanenza in Italia.
Il percorso fatto insieme all’Enoteca La Torre è stata una bella avventura per entrambi. Portare a Viterbo la cucina gourmet è stata una sfida difficile, ma che ci ha dato grandi soddisfazioni. Cosa è cambiato nella tua cucina dopo quella esperienza e dopo la stella? Chiede Carlo mentre una leggera spolverata di nostalgia si aggiunge al discorso. In vario modo l’Enoteca La Torre è stato il nostro romanzo di formazione, per qualcuno ai fornelli e nel mondo dell’alta ristorazione e per altri –chi scrive– in quello dell’editoria gastronomica. Da lì, infatti sono nati i quattro libri dedicati ai sapori della Tuscia (La Tuscia in cucina) con le ricette della tradizione che si affiancano ad altre create appositamente attorno ai nostri prodotti tipici, studiate e realizzate da Noda e fotografate da Sergio Galeotti.
Come dicevo lì ho messo le mie basi: materie prime di qualità e studio della tradizione. La stella è arrivata nel 2011 e nel frattempo ho lavorato all’Enoteca Pinchiorri di Firenze dove sono entrato in contatto con Luigi Picca e insieme abbiamo ripreso il discorso Enoteca la Torre. Equi dopo anni passati in Italia, dopo essersi impadronito della capacità di selezionare gli ingredienti, di capirne l’importanza, dopo essersi distaccato dalla fede assoluta nella tecnica, Noda compie il passo successivo e necessario: il recupero di una tradizione personale e culturale. Con una consapevolezza nuova, con le conoscenze giuste si sente pronto ad affrontare quel gigante che è la cucina giapponese, e ancora una volta cerca una sua strada che non è tappezzata di sushi e sachimi, ma si nutre del gioco delle consistenze e degli accostamenti, che alleggerisce la materia, lavora sulle trasparenze, sull’assolutezza dei sapori e sulla forza visiva. Senza rinunciare al gusto italiano per le materie prime. Dopo la stella ho cercato uno stile più personale dove potesse avere spazio anche il mio essere giapponese, ho cercato un compromesso nippo-etrusco o se vuoi nippo-romano. In questo senso l’esperienza al Magnolia Restaurant del Jumeirah Grand Hotel di via Veneto qui a Roma è stata particolarmente importante per mettere definitivamente a fuoco la mia ricerca personale: riuscire a coniugare gli ingredienti tipici, la territorialità aggiungendo alle mie basi francesi, metodi e tecniche di cottura giapponesi e la profonda conoscenza del pesce che mi appartiene per cultura. Quaranta anni ben nascosti dietro la sua curiosità, il desiderio di continuare a crescere professionalmente, imparare, conoscere portano Noda al Noma di Copenaghen per uno stage. Fermentazione e conservazione per quanto riguarda la cucina, organizzazione quasi militare e il senso profondo, attento, curatissimo dell’accoglienza sono le cose che vuole portare a casa.
Il Noma è una realtà incredibile. Il progetto che lo sostiene è finanziato in parte dallo Stato. All’interno c’è un vero laboratorio di ricerca, 4 cucine, un grande rigore un rispetto altissimo per l’ospitalità. I tavoli sono sempre pieni e ogni cliente è servito da persone della stessa lingua. Mi ha colpito in particolare questa attenzione al cliente e al servizio. Un aspetto, quello dell’accoglienza, sempre più trascurato in Francia, Gran Bretagna e Italia. Nel frattempo, in un luogo diverso e lontano da Copenaghen, Emanuele Cozzo aveva deciso di di offrire ai palati romani l’esperienza del bistrot, o meglio del neo bistrot che ormai stava dilagando dalla Francia in tutta Europa. La scelta del luogo era caduta su un quartiere in fermento, non tanto dal punto di vista gastronomico, ma sicuramente da quello architettonico, diventato sede di alcune tra le maggiori opere contemporanee romane, il Maxxi di Zaha Adid, l’Auditorium di Renzo Piano e il Ponte della Musica. Il quartiere in questione è il Flaminio, riva sinistra del Tevere. Il concetto attorno a cui ruota il suo progetto è semplice: rendere più informale e abbordabile la cucina gourmet. L’applicazione è decisamente più complessa.
Occorrenti in ordine sparso: un locale che riesca a trovare il difficile equilibrio fra essenzialità e accoglienza; che riesca a coniugare un’anima un po’ indie e un po’ urban style con il calore e la convivialità dell’ostaria rispecchiata in un’apparecchiatura semplice, ma non banale, molto legno, preferibilmente scuro, illuminato da belle vetrate o finestre, e, assolutamente immancabile, una lavagna (o più di una) con le proposte del giorno o i vini al calice; un rapporto qualità prezzo imbattibile; ingredienti di prima qualità e preferibilmente di produttori con cui si abbiano rapporti diretti. E ultimo, ma non ultimo, uno chef di talento, con una conoscenza approfondita delle materie prime che sappia cercare, rispettare ed esaltare i sapori del territorio, possibilmente con un che di internazionale che non guasta, e una grande sapienza tecnica.
È stato così che Emanuele ha individuato in Noda l’uomo giusto per portare a compimento la sua idea. Posto accogliente e caldo, uno chef di talento e un rapporto qualità/prezzo invidiabile considerando che a pranzo, dal martedì al venerdì, al Bistrot 64 si possono mangiare due portate a 15,00€ o un hamburger al banco a 13,00€ e la sera si può godere del menu degustazione 4 portate a 35,00€ o 7 a 50,00€.
Seduto a uno de tavoli del Bistrot Carlo riprende il discorso ricordando la cena dello scorso novembre organizzata per Piacere Etrusco, la manifestazione della Camera di Commercio di Viterbo con i prodotti a Marchio Tuscia Viterbese:
Tornando alle esperienze recenti, hai raccontato attraverso i tuoi piatti il nostro territorio con i suoi prodotti, una narrazione che si è intrecciata con le indicazioni sempre puntuali e brillanti da Paolo Zaccaria. Ricordo in particolare i tortelli di coniglio in brodo di anguilla affumicata, un piatto davvero ben riuscito, dal gusto equlibrato, armonico e in cui il nostro territorio ha trovato una sintesi eccellente. Com’è stato tornare a lavorare con quegli ingredienti?
Mi è piaciuto molto. Il mio modo di cucinare come ti dicevo nel frattempo è cambiato, per la serata ho cercato invece di riproporre piatti elaborati secondo lo stile del periodo passato nella Tuscia. Conoscevo perfettamente i prodotti, alcuni li continuo a usare come l’EVO Colli Etruschi, o i legumi: fagiolo del purgatorio, cece del solco dritto e lenticchia di Onano. Altri vorrei riportarli ai miei fornelli come per esempio l’anguilla del Lago di Bolsena che proprio grazie ai fondali vulcanici, profondi e privi di mota, mantiene una carne piacevole senza quel sentore fangoso tipico delle anguille di altra provenienza
Il locale inizia ad animarsi, si comincia a preparare per il lunch, Emanule Cozzo si avvicina. Una foto tutti insieme, sorridete, spontanei. E via verso casa con quel sapore un po’ amarcord e il piacere delle chiacchiere fatte con un vecchio amico.
(dal blog www.carlozucchetti.it)