Il suo è un punto di vista privilegiato. E non soltanto perché da quassù, attraverso le ampie vetrate al primo piano della sede centrale della Banca di Viterbo, si può spaziare con lo sguardo sopra mezza città. No, quello che dice Massimo Caporossi è temprato, smorzato, modellato da 44 anni passati dentro l’azienda della quale oggi è direttore generale. In testa ha i numeri, che non sono numeri felici in questi tempi di crisi, ma ha anche il coraggio di dire le cose come stanno. Perché per uscire dal tunnel, l’economia – anche quella viterbese – non ha certo bisogno di ipocrisia.
“Il quadro è di facile descrizione: fino a due anni fa la nostra provincia era quasi privilegiata, oggi è in caduta perpendicolare – dice Caporossi – Da sempre siamo influenzati da Roma, la Capitale annacqua i numeri, le statistiche, gonfia quelle regionali: pensiamo al turismo, che macina numeri da record su scala laziale, ma in realtà è la forza di Roma a funzionare, non quella delle province. E quest’anno nella Tuscia hanno chiuso circa 350 aziende. Perché gli imprenditori chiudono? Per la crisi, certo, ma anche perché, proprio per aver vissuto tranquillamente sotto l’ombrello di Roma, qui le aziende non erano preparate strutturalmente ad affrontare le difficoltà: una questione di organizzazione, e di storia. Come se non bastasse, l’imprenditore non ha certezze. Chi capisce come andrà il 2015 è un fenomeno: non si sa se ci sarà una leggera ripresa, oppure se la situazione rimarrà questa”.
Il panorama è questo. Ci sono le eccezioni, certo, anche positive, che chi dirige una banca locale conosce – fiuta – meglio di ogni altro: “Penso a chi ha saputo lavorare per tempo sull’esportazione, che è una dei pochi fattori di crescita. E poi naturalmente ci sono le piccole imprese, a gestione famigliare, che nel loro Dna hanno la lotta ad oltranza, gente che non s’arrende per tutelare il loro futuro, quello dei loro figli. In questo s’inserisce il ruolo della banca, che può essere fondamentale per aiutare queste micro realtà così presenti nel territorio viterbese. Ecco, una banca locale ha il dovere di andare oltre i bilanci, prendendosi anche dei rischi: per quanto ci riguarda, negli ultimi tre anni abbiamo chiuso sempre in pareggio, reinvestendo sempre sul territorio. Abbiamo fatto la nostra parte, insomma, tendendo conto che non c’è spazio per gli investimenti sui nuovi progetti di sviluppo, ma si lavora sul denaro circolante”.
E questo è un aspetto curioso, che visto da qui, da dietro il bancone, dalla cassa, fa anche un certo senso: “Sono gli stessi imprenditori a non chiedere più soldi per gli investimenti, per gli allargamenti – ammette Caporossi – Lo sappiamo bene anche dai riscontri che abbiamo avuto alle nostre iniziative. Abbiamo varato Sos imprese, il cui simbolo è un ombrello aperto, e ci aspettavamo molto più entusiasmo. Invece i risultati si sono appiattiti. Perché? Perché le aziende oggi vivono nell’incertezza del futuro, non sanno quello che succederà e dunque ci pensano dieci volte prima di fare debiti. Nell’ultimo mese abbiamo stanziato quasi cinque milioni di euro, abbiamo chiamato le aziende più importanti e abbiamo avuto buone risposte, ma non ottime. E pensare che parliamo di una realtà come la nostra, dove l’accesso al credito è rapido, c’è meno burocrazia, lavoriamo con una filiera corta, per usare un termine agricolo, pur rispettando le regole, che sono ferree”.
E veniamo alle previsioni per l’anno che verrà, premettendo che nessuno ha la palla di vetro. Caporossi è sincero: “Il 2014 lo vedo come il 2015. Piatto – dice – Ma noi abbiamo il dovere di vedere in positivo. Perché come banca dobbiamo prendere la raccolta e trasformarla in prestito, rimanendo poco assoggettati alla finanzia. E’ questa la nostra missione, difendere l’impresa e l’occupazione, perché ogni azienda che chiude e un pezzo di noi che muore. Non è la solita frase fatta: abbiamo 2400 soci. La nostra forza è di essere strettamente legati al territorio, ma attenzione perché le risorse sono limitate, bisogna saperle gestire, altrimenti quel legame potrebbe diventare anche la nostra debolezza”.