17112024Headline:

Il lavoro, la riforma e un dibattito civile

Un momento della videoconferenza col senatore Pietro Ichino

Un momento della videoconferenza col senatore Pietro Ichino

Gioie e contrattempi di fare una cosa così – gli Stati generali del lavoro, organizzati dal movimento Per il Lazio – e farli in una fabbrica. Gioie: il posto, la tipografia Union printing sulla Cassia, è uno spettacolo, si sale al primo piano, si dribblano i macchinari e le lastre per la stampa, e si arriva in una sala conferenze vagamente sperimentale, a metà tra un vecchio magazzino e uno spazio per le idee, col profumo (e il rumore) di lavoro tutt’intorno. Di qui, anche i contrattempi: ci sono delle macchine parcheggiate giù di sotto da spostare, perché impediscono ai camion dell’azienda di entrare e uscire.

Qui si lavora sempre, qui si lavora persino in tempi come questi e in giornate come quella di ieri è affascinante come il lavoro “fisico” si sommi a quello astratto, tema dell’incontro dal titolo: “Storie, esperienze, opportunità. Dalla Tuscia all’Europa per superare la crisi insieme”. Modera il capogruppo di Per il Lazio in consiglio regionale, il professore e scienziato Riccardo Valentini. Presenti, i tre segretari regionali della (ex) triplice: Claudio Di Berardino (Cgil), Andrea Cuccello (Cisl, fresco di nomina e soprattutto viterbese doc) e Pierpaolo Bombardieri (Uil, nuovo segretario nazionale). In collegamento via Skype c’è soprattutto Pietro Ichino, il giuslavorista e senatore del Partito democratico. Ed è pacifico che si inizi e si finisca per parlare del Jobs act, la riforma del lavoro voluta dal Governo Renzi e arrivata alla sua fase calda della definitiva approvazione da parte del Senato.

Qui, in scala minore e con toni certamente più pacati rispetto al berciare delle agorà televisive e reali, anche grazie al clima informale e alle capacità di gestione del dibattito dello stesso Valentini. Che piazza subito una domanda cabriolet: a Ichino, che della riforma è stato l’inspiratore e l’auspicatore già in tempi pre-renziani, chiede: “Cosa non le piace del Jobs act?”. E ai sindacalisti, di contro: “Cosa vi piace di questa riforma?”.

Ichino risponde con un pizzico di snobismo di quello che conosce la materia: “Non mi piace il dibattito intorno. Perché si è finito di parlare soltanto della disciplina sui licenziamenti, e non sugli altri contenuti. Eppure questa è una riforma che si propone di risolvere un ordinamento vecchio di oltre quarant’anni che ha fatto trasferire nel modello privato un sistema proprio del settore pubblico, quello della sostanziale inamovibilità del lavoratore, a meno che non si verifichino gravissime motivazioni economiche o imperdonabili mancanze da parte dello stesso lavorare. Le nuove misure cambieranno il sistema di tutela e allargarlo, non solo ai dipendenti da contratto ma a quelli che lo sono di fatto, tipo i co.co.pro. E insieme vuole anche far funzionare una sere di sistemi che attualmente non funzionano nel mercato del lavoro, penso per esempio al ricollocamento dei licenziati. Mi dispiace che di queste cose non se ne sia parlato, e forse la colpa è anche del Governo, che non ha saputo presentare bene l’impianto del Jobs act”.

Col Governo, ma per altre ragioni, se la prendono invece i segretari dei sindacati. O meglio:due su tre di quelli presenti. Domanda Valentini: cosa vi piace della riforma? Di Berardino impersona tutte le opposizioni sollevate dalla sua Cgil: “Non ci piace nulla, e infatti il 12 dicembre saremo in piazza per protestare con lo sciopero generale, tanto più che il Governo ha deciso di andare avanti senza confrontarsi con le parti sociali e forse utilizzando ancora il voto di fiducia in Parlamento. L’Italia semmai ha bisogno delle cose che danno il titolo a questa iniziativa: lavoro, innovazione, territorio”. Anche Bombardieri (Uil) bombarda: “Non piace neanche a noi. Stiamo assistendo, signori, ad un ridimensionamento globale delle tutele dei lavorati. Il ricollocamento? Mi riesce davvero difficile pensare ad un 50enne licenziato da una fabbrica che venga ricollocato altrove…”

Molto più morbida la posizione della Cisl, che infatti il 12 dicembre non parteciperà allo sciopero. Cuccello sta nel mezzo: “Non mi è piaciuto il modo in cui il Jobs act è stato presentato, ma entrando nel merito vi trovo molte proposte che il nostro sindacato ha sempre sostenuto. Dal contratto a tutele crescenti all’estensione del diritto di maternità per le donne. Ecco, per la prima volta si parla di cose importanti”.

Prima c’era stata la testimonianza di Ilaria Boscaglia, novarese laureata con dottorato in antropologia culturale (prima a Torino, poi a Siena) finita a fare la ricercatrice all’università del Rwanda: “Una doppia fuga di cervelli, perché è finita in un Paese molton più povero dell’Italia, ma evidentemente più attrattivo”, sottolinea Valentini. E Ilaria, via Skype dall’Africa: “Trovare un contratto, anche precario, nell’università italiana non è facile. E poi si tende sempre a infantilizzare il ricercatore, a dargli poca fiducia e a gerarchizzarlo. Una cosa fastidiosa, quando si ha trent’anni e già quattro alle spalle di esperienza in ricerca. Qui vivo bene, sono responsabilizzata e ben pagata, ma certo mi sono formata nel mio Paese, anche grazie ai soldi pubblici, e mi piacerebbe tornare e poter dare qualcosa in cambio”.

E Ichino, giusto per tirar su il morale ai precari depressi, cita un caso limite: “Che una quota di ricercatori se ne vada all’estero è fisiologica nella globalizzazione, il brutto è che noi non riusciamo ad attrarre una quota uguale o superiore di stranieri. Perché? Perché da noi l’accesso è svantaggiato, passa attraverso lunghe code e graduatorie. Come per l’insegnamento musicale in conservatorio, dove le assunzioni sono ferme all’ultima graduatoria del 1990. Finché non si esaurisce quella lista, nulla da fare, e parliamo di graduati nati nel 1966. Perciò, da allora, in Italia potrebbe anche essere nato un nuovo Mozart, o un nuovo Paganini, ma sarebbe certo di non poter insegnare”. Che musica, maestro. Ad orecchio, sembra un Requiem.

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