Ciclamini e bottiglie di Heineken. Fazzoletti sporchi di chissà cosa. Antiche iscrizioni sul tufo e graffiti spray molto più recenti e molto meno misteriosi. Il silenzio rotto soltanto dalle ghiande che cadono a terra e dagli elicotteri dell’Aves che si esercitano nel cielo autunnale. Eccola, la necropoli etrusca di Castel d’Asso, un posto talmente bello da meritarsi appena qualche giorno fa la pubblicità da parte del Comune di Viterbo alla Borsa mediterranea del turismo archeologico, in quel di Paestum e, appena due giorni fa, alla riunione dei sindaci delle città etrusche, in previsione di Expo 2015.
Castel d’Asso come Norchia, come Ferento, il tridente con cui Viterbo si presenta alla partita decisiva per valorizzare il patrimonio etrusco dell’Italia centrale, quel patrimonio sopravvissuto da millenni di intemperie, guerre e razzie, e oggi messo a repentaglio in questi tempi di riforme galoppanti e di revisione della spesa. Ma vale davvero la pena difendere questi poveri e magnifici resti dagli attacchi della burocrazia e della politica (quella peggiore), se non riusciamo neanche a renderli dignitosi – accessibili, fruibili, magari godibili – al visitatore comune? E’ questa la domanda che rimbalza dentro la testa alla fine di una passeggiata solitaria nel cuore del sito archeologico. E’ questa la madre di tutti i dubbi, mentre si gira la macchina e si torna verso la civiltà moderna, correndo verso le Terme, solcando la prateria piena di trattori e di camion di ortaggi.
Intendiamoci: Castel d’Asso non è sporca. O almeno, è meno sporca del recente passato, quando i profilattici usati e le siringhe disegnavano quasi dei percorsi turistici tra le tombe. Di quello scempio è rimasto poco, e ad un certo punto del percorso hanno piazzato addirittura un cestino per l’immondizia: è l’unico, e non è neanche pieno, ma è già qualcosa, anche se non impedisce ai soliti incivili di disseminare – specie nel parcheggio delle auto – bottiglie e lattine di birra, stropicciati pacchetti di sigarette e cartacce varie. No, Castel d’Asso non è sporchissima, e comunque non è questo il punto.
Semmai Castel d’Asso è abbandonata, isolata, territorio lunare e non solo per le balze di tufo, i canyon intorno al torrente Freddano e la vegetazione selvaggia. Qui, ad un certo punto del primo pomeriggio di lunedì, si avverte in tutta la sua forza la distanza dal Resto del Mondo. Distanza non soltanto fisica (una decina di chilometri scarsi dal centro di Viterbo), ma soprattutto empatica. In fondo, la città ormai è arrivata fino qui: ci sono campi coltivati e aziende, villoni con parabole sul tetto e giardini recintati con pratini all’inglese. La strada asfaltata è comoda, talmente comoda da agevolare le discariche abusive: gabinetti, televisori e persino un passeggino sono ammucchiati ad appena duecento metri dalla necropoli. Ma poi basta svoltare a sinistra ed entrare nel “parcheggio” (in realtà un piazzale brullo, con un cancello bloccato da un bastone e due cipressi frustati dal vento) per avvertire il cambiamento: siamo sulla luna, siamo nel deserto. siamo in una bolla antica che con Viterbo e i viterbesi non ha nulla a che spartire. Lontana dagli occhi, lontana dal cuore.
Ci sono due cartelli con informazioni turistiche, datati e scoloriti, e appena fuori una bacheca con un paio di pubblicità. Non c’è un chiosco, non ci sono servizi igienici (ma tanto siamo in campagna…) non c’è un guardiano, non c’è neanche un turista, non c’è nessuno. Di notte, però, ci sarà sicuramente qualcuno a fare dell’altro, magari all’amore, visto che una gigantesca scritta di vernice sulla recinzione ricorda ai posteri – in un idioma universale come l’inglese – che tale “Daddy” ha fatto “sesso” qui. Se da solo o con un/una partner non è dato sapere: scoprirlo spetterà agli archeologi intorno all’anno 3025.
E sempre da soli si scende giù, lungo il sentiero, tra le strepitose tombe rupestri e tra i cartelli che, ogni cento metri, ricordano che questa è una riserva venatoria, e che “la caccia è consentita soltanto agli autorizzati”, caso mai ad una turista olandese venisse voglia di sparare ad una beccaccia. Pure i nastri di sicurezza, quelli bianchi e rossi, non mancano e sembrano liane: se doveste cadere in qualche burrone, poi dite che non eravate stati avvertiti. Un maglione steso su un masso, e un vecchio sandalo ortopedico tra gli arbusti fanno sospettare qualche presenza umana più recente dell’ottavo secolo avanti Cristo. Chissà. Certo che mentre si gira, si osserva e si scende – stando sempre attentissimi a non rompersi una gamba, per evitare di morire abbandonati e assiderati in questo posto dimenticato da tutti tranne dai professori stile Indiana Jones e dalle guide turistiche -, la solitudine cresce. Non resta che sperare d’incontrare qualcuno, prima o poi: magari il fantasma di un lucumone, magari un cinghiale in cerca di compagnia, magari il prossimo amministratore locale che si sarà permesso di pubblicizzare i nostri tesori etruschi. Così vicini e così lontani, praticamente sulla luna.