Viterbese contro Budoni, oggi allo stadio Rocchi, sarebbe una tranquilla partita di serie D. Magari per tutti, ma non per me. Che sono sarda di Cagliari, vivo e lavoro a Viterbo da quasi tredici anni e, come se non bastasse, ho i genitori che abitano proprio a Budoni, dove trascorro tutte le estati e le feste comandante. Insomma, un bel corto circuito di emozioni. Quelle emozioni che spesso soltanto il calcio riesce a intrecciare. Perciò, anche per condividere questa giornata particolare che mi appresto a vivere, vi invito a seguirmi in un viaggio virtuale a Budoni, il piccolo borgo della Gallura.
Cinquemila anime – che d’estate toccano la soglia degli ottantamila – spalmate in ben ventidue frazioni dai nomi strampalati e dagli eccessi di accenti come S’Iscala, Tananunella, Lu Linnalvu, Birgalavò, Muriscuvò, Ludduì, Malamurì e Solitá. Il paese si trova in una sorta di limbo tra lo sfarzo della Costa Smeralda, i suoi centri mondani di Porto Rotondo e Porto Cervo, dove le rocce granitiche scolpite dal maestrale si sposano con il mare cristallino e la Sardegna più selvaggia delle cosiddette Baronie, le storiche regioni introdotte con il feudalesimo dagli Aragonesi, dove tra le aspre montagne si incontrano territori che sembrano essersi fermati nel tempo. Ecco, a Budoni si possono scoprire entrambi i mondi. Non mancano i locali, i ristoranti e le discoteche rinomate che contraddistinguono il turismo estivo, ma esistono ancora riti tipicamente rurali.
É facile trovare le “tzie”, ovvero le signore, che vendono il formaggio, il miele e il pane fatto in casa. Una su tutte Tzia Minnia, zia Domenica. Lei vende una delle ricotte più buone che io abbia mai assaggiato. Che poi, la mattina a colazione, la spalmi su una fetta di pane carasau e la irrori con l’abba mele (un derivato del miele). “Che te lo dico a fa’”, direste voi (noi) viterbesi. È il latte appena munto delle mucche di Sergio? Le angurie di tziu Chirigu? Roba da finire in un centro di disintossicazione. Quello che amo di questi posti sono le persone anziane. Donne forti, dallo sguardo fiero di chi porta i pantaloni in casa. Già, perché in Sardegna funziona così, la donna ha sempre l’ultima parola e porta avanti la baracca. Le vedi appena fuori dalla porta di casa, con la mano appoggiata sul fianco, vestite rigorosamente con “sa unnedda”, la tipica gonna lunga a pieghe, di colore scuro, e “su mucatore”, il fazzoletto che viene avvolto sul capo. Istantanee da portare nel cuore.
Mare, ma non solo. L’accostamento mare-Sardegna è uno dei più banali verrebbe da dire, ma è così. Qui, nel giro di dieci anni, il turismo è cresciuto in maniera esponenziale, ma ha trovato il giusto equilibrio, senza intaccare il patrimonio naturale della costa, dalla quale è possibile ammirare la maestosa Isola di Tavolara. Dalla rigogliosa pineta si sprigiona il profumo pungente delle piante di elicriso, da non confondere con la liquirizia, del cisto e della resina degli alberi. I gigli bianchi e i cardi crescono selvaggi sui cinque chilometri di candido arenile e il mare turchese si staglia tra i due promontori. Uno spettacolo per gli occhi e il cuore.
Capitolo cibo. Trovandosi sul fazzoletto di terra che confina tra due province linguistiche, la Gallura e il Logudoro, a Budoni si parlano due dialetti. Proprio per questo motivo anche i piatti tipici risentono dell’influenza dei due territori. Non c’è che scegliere: cozze di Olbia, ostriche di San Teodoro, pesce fresco, ma anche porceddu, agnello con patate, salsicce, ricotta fresca, zuppa cuata, una sorta di lasagna fatta con il pane carasau, pecorino e, dulcis in fundo, la seadas, una delle droghe legali nell’isola insieme al mirto e alla birra Ichnusa (provare per credere).
Domenica Viterbese e Budoni scenderanno in campo e io, che ormai nella terra degli etruschi ci abito da quasi 13 anni, mi trovo con il cuore diviso a metà. Il primo marzo ci sarà poi la gara di ritorno allo stadio Pincelli, io ci sarò, e se voi vi sentite attratti dalla mia terra prenotate il biglietto e organizzate una bella trasferta. Ma attenzione al “mal di Sardegna”, questo è un morbo che colpisce chi varca i confini del Tirreno. Si insidia nell’anima e non ti lascia più. E che sul campo vinca il migliore: in ogni caso io esulterò.