Partito faidaté? Ahi, ahi, ahi.
Già, lo slogan di un notissimo tour operator che per molto tempo ha imperversato in televisione sta proprio a pennello al Movimento 5 Stelle, reduce dalla batosta elettorale del 25 maggio scorso. Ed è un peccato che il suo leader Beppe Grillo, invece di fare una sana riflessione su quanto accaduto e quanto potrebbe accadere in futuro, stia portando i suoi aficionados tra le braccia di Nigel Paul Farage e del suo partito omofobo e razzista.
Ma andiamo con ordine, giacché – tra la moltitudine di analisi che politologi sicuramente più illuminati del sottoscritto hanno stilato in questi giorni – mi si permetta di fare qualche considerazione terra terra, ispirata come sempre dal buon senso, per tentare di comprendere l’evolversi degli eventi già verificatisi e quelli che potrebbero verificarsi.
Per far ciò, bisogna partire dal febbraio 2013, ovverosia dal grande successo ottenuto da Grillo e dai suoi alle elezioni politiche, che decretarono la sconfitta del presuntuoso Pier Luigi Bersani e di un Pd legato ancora alle vecchia logiche della sinistra inciuciona e disfattista. Il comico, pardon l’ex comico, genovese a Garganella (come lui lo chiamava) disse un no perentorio con tutto quello che ne seguì. Già all’epoca, nel movimento, ci fu dibattito, perché quel gran rifiuto portò il Pd diretto nelle braccia di Berlusconi e delle larghe intese. Ma quella mossa non fu ai più – osservatori distaccati compresi – del tutto incomprensibile. Giacché un eventuale patto col diavolo avrebbe significato rinnegare tutto ciò che era stato detto in campagna elettorale. E poi: l’M5S rappresentava allora l’antisistema di fronte al sistema che si stava auto-restaurando per poter continuare a gestire il potere. Quindi la decisione presa aveva in sé quella coerenza di cui Grillo s’è sempre vantato.
I problemi però, sono a mio avviso arrivati a fine anno, quando il Pd – sulla base di una fortissima spinta popolare – ha cambiato faccia. L’ebetino (che tanto ebetino non è affatto) Matteo Renzi è diventato segretario del partito, ha stravolto la segreteria e la direzione nazionale, ha uccellato un presidente del Consiglio troppo tremebondo come Enrico Letta e ha cominciato quella marcia a tappe forzate per stravolgere il Paese. Ma, a differenza di Grillo, lo ha fatto entrando nel sistema e cominciando, pian piano da dentro, quella rottamazione più volte decantata in passato.
A mio modestissimo avviso, è stato proprio in questo momento che Beppe Grillo e il suo movimento hanno perso il treno. Giacché quell’opposizione anti-sistema che aveva funzionato fino a quel momento, improvvisamente è diventata un’arma spuntata.
Già, direte voi, e allora il Beppe nazionale cosa avrebbe dovuto fare? Il giocatore di poker. Ossia andare a vedere le carte di Matteo Renzi. Non dico stipulare una vera e propria alleanza di Governo (sarebbe stato oggettivamente troppo), ma almeno affacciarsi al tavolo delle riforme: quella elettorale, quella del Senato e quella del Titolo V della Costituzione. Proponendo anche modifiche e miglioramenti (un esempio su tutti: l’istituzione delle preferenze). In questo modo avrebbe dato finalmente concretezza alle sue parole di cambiamento e allo stesso tempo avrebbe potuto toccare con mano (come San Tommaso) se l’ex sindaco fiorentino vuol fare sul serio o (come dice lui) bluffa.
Ecco. Io credo che la debacle del M5S stia un po’ tutta qui. Grillo ha urlato come un matto che voleva cambiare l’Italia. Poi, quando è arrivato un altro che ci sta provando per davvero, si è tirato indietro.
E adesso? Ci sarebbe ancora tempo per cambiare marcia, giacché il tema riforme decollerà nei prossimi giorni. Ma da quello che si è visto finora all’ex comico genovese interessa solo fare casino. In Italia, e ora pure in Europa. Insieme a Nigel Farage e ai suoi xenofobi.
Auguri.