A proposito di cultura. Giacché qualcuno che scrive su queste colonne “non sa di cosa si stia parlando”, forse è bene lasciar spazio ad altri che invece ne sanno. La fonte è il Tafter journal. Per chi non lo sapesse, trattasi di una rivista on-line che declina i temi inerenti la cultura e il territorio, secondo una prospettiva scientifica. L’editoriale porta la firma di Michele Trimarchi. Magari taluni se lo ricorderanno nei panni di docente a Beni culturali, Viterbo e non Singapore.
Il pezzo apre così: “Il rapporto tra attività culturali e fondi pubblici è oggetto di un interminabile tormentone. Come sempre, le schiere si assestano su fronti opposti e per atterrire gli avversari adottano argomenti da giorno del giudizio. L’aggettivo più usato è ‘giusto’, che dovrebbe trovare poca cittadinanza in un sistema permeato da libertà espressiva. Ma finiamo per volgere una questione tecnica in un dilemma etico”.
Questo pare che la faccenda la conosca bene. Comunque. “Esplorando la variegata casistica dei progetti realizzati con una combinazione variabile di entrate proprie ed entrate derivate, per lo più di fonte pubblica, si cominciano a vedere – prosegue – le coordinate di percorsi non necessariamente lineari, e spesso fragili nell’impianto logico. La sovrabbondanza di fondi pubblici a tutti i livelli di governo è stata negli anni controbilanciata dall’ossessione di emettere bandi erga omnes, in modo da schivare l’accusa di intelligenza con il nemico. L’effetto è stato quello di sovrapporre e contrapporre la mappa delle formalità alla mappa delle azioni concrete, lasciando convivere serenamente protocolli asettici e negoziati opachi, corridoi intasati di relazioni ammiccanti e accordi compiacenti”.
Proseguiamo: “La cultura resa inferma da farmaci sbagliati in dosi massicce a un certo punto si è imbattuta nella falce contabile che ha tagliato senza alcun criterio i bilanci pubblici. E’ comprensibile che il degente reclami un ritorno alle dosi precedenti, ma forse è il caso di avvertirlo che dare un farmaco sbagliato a un cronico lo fa spegnere più velocemente”.
E ancora. “Forse è il momento di interrogarci sulla pertinenza del finanziamento pubblico. I fondi dovrebbero rispondere a un obiettivo strategico irrinunciabile: creare e rafforzare quell’humus materiale, tecnico e cognitivo che può stimolare e facilitare progetti e iniziative artistiche e culturali. Lo snodo cruciale è il palinsesto territoriale e umano nel quale la cultura nasce e attecchisce forte e sostenibile”.
Chiusura col botto. “Va male, dunque? In tutte le fasi di passaggio radicale si teme sempre di risvegliarsi più scomodi di quando ci si è addormentati. Ma molto dipende dalla capacità e dal desiderio di diventare adulti, accettando la scomparsa delle stampelle e avventurandosi in un percorso in cui inciampare insegna a camminare. Se in passato il sistema è diventato asfittico nel suo complesso non si può dire che nulla funzionasse; al contrario, pur in un ecosistema statico non sono state poche le iniziative e le azioni culturali capaci di generare un impatto notevole e solido sulla qualità della vita urbana, sul reticolo di relazioni critiche, sul benessere della comunità residente. Simmetricamente, non mancano le azioni scaturite dal basso nelle quali l’idea progettuale prevale sulle opzioni di sostegno finanziario. Chi crede davvero in un progetto fa di tutto per realizzarlo e sa muoversi dentro le maglie scomposte di regole obsolete. L’arte invisibile, la cultura non convenzionale, o semplicemente i progetti creativi forti e dinamici riescono comunque a radicarsi nel territorio e a produrre valore”.
Amen.