“Quattro anni dopo, nel 1988, andammo ad assistere alla messa nella sua cappella privata, in Vaticano. Partimmo la sera prima, dovevamo essere lì per le sei e mezza. Ero un giovane seminarista, allora, ma mi ricordo l’emozione. Specie quando alla fine ci venne a salutare uno ad uno, dal vescovo in giù. Ci chiese da dove venissimo. E dopo: Viterbo, eh? Quella sera mi sbagliai… dissi santa Rita invece di santa Rosa…”.
Nel racconto di don Luigi Fabbri, il segretario del vescovo, scene dalla vita di un santo.
Quel Karol Wojtyla che anche quattro anni dopo la visita pastorale nel capoluogo della Tuscia si ricordava tutto: incontri, volti, anche quella mezza gaffe (abist iniuria verbis) che proferì dal balcone di Palazzo del Podestà nell’ultimo discorso, il più importante e rimasto nella storia, di quella giornata straordinaria. Sotto, nella piazza, c’era la Macchina di Santa Rosa, Spirale di fede, un nome che era insieme immagine leggendaria. Sotto, c’erano i facchini, zuppi dell’acquazzone appena svanito (miracolosamente: aveva smesso proprio in via Cavour, all’altezza di dove si fermò Volo d’Angeli nel 1967) e stanchi per lo sforzo e per le emozioni. Il papa, subito dopo, volle scendere, spaccando a metà il protocollo come spesso gli succedeva, e salutarli uno ad uno. “Valeva la pena per un papa venire a Viterbo”, disse ancora il Grande Polacco, con la sua consecutio incerta eppure incredibilmente efficace.
Martedì saranno trent’anni da quel giorno. E visto che non si potranno celebrare come era nelle intenzioni (cioé con un Trasporto eccezionale della Macchina, magari alla presenza del papa di adesso, Francesco), a causa di parecchie coincidenze negative, ecco l’alternativa. La sera, in piazza San Lorenzo, arriverà il cuore della Santa, che entrerà in chiesa scortato dai Facchini, per la messa solenne di ringraziamento celebrata dal vescovo Lino Fumagalli, che indosserà i paramenti vestiti da Wojtyla in quel 27 maggio 1984. Poi, all’uscita, un colpo di scena, con una proiezione su maxischermo al momento coperta dalla massima riservatezza ma di sicuro impatto. E non è finita qui, perché dal 30 maggio al 2 giugno, nella sala del conclave di palazzo papale, ecco una mostra con immagini, ritagli di giornale, oggetti e testimonianze raccolti con un lavoro certosino da Fausto Cappelli e da Rodolfo Morbidelli, il fotografo del Sodalizio.
Ma ieri mattina in Comune, per presentare questo programma e il suggestivo manifesto che ricalca fedelmente quello orginale di trent’anni fa, disegnato dal professor Luciano Ilari e miracolosamente recuperato nell’unica copia esistente, era il momento dei ricordi. Perché tutti si ricordano di quel giorno, della pioggia, della frenesia, dell’elettricità che scorreva nel sangue e nei cuori dei viterbesi, dall’allora sindaco Ascenzi all’ultimo dei fedeli, come quella signora bagnaiola che, baciando la mano del pontefice a Santa Maria della Quercia, si ritrovò il suo anello in mano, e quasi svenne.
Ricordi, appunto, che sgorgano sinceri e nitidi, perché tutti, allora, svolsero una parte di storia. “Allestimmo noi la piazza della Quercia – racconta il sindaco Michelini, allora giovane imprenditore vivaistico – E pensammo di fare cosa gradita al papa portando ai piedi del santuario la flora del suo Paese natale, della Polonia. Perciò piantammo delle betulle, alberi del nord per antonomasia. In seguito contattammo il suo segretario, quello Stanislao Dziwisz che poi è diventato arcivescovo di Cracovia, e ci accordammo per portare quegli alberi fino a Roma, ad un istituto cattolico polacco sulla Cassia. Credo che stiano ancora lì…”. Mentre la Land Rover che sempre i viterbesi regalarono a Wojtyla, dovrebbe essere ancora da qualche parte in Africa, al servizio dei missionari.
Storie che s’incrociano e che s’innestano nelle radici di questa città, della sua gente. Massimo Mecarini, ora presidente del Sodalizio, era un facchino tosto: “Anche allora il 27 maggio era in mezzo alla settimana. Fu una giornata tremenda, dal punto di vista meteorologico: nuvoloni neri sin dalla mattina, appena partimmo per la sfilata iniziò a piovere fortissimo, tant’è che a San Francesco ci dovemmo fermare, e salire sui bus per raggiungere il ritiro, allora alle Scuole rosse. Qui, nella palestra, ci cambiammo o asciugammo con mezzi di fortuna. Pioveva a Santa Rosa, pioveva a San Sisto sotto la Macchina. Eppure la mossa si fece, anche se poi lo scroscio incessante ci consiglio di farà una sosta brevissima a Fontana Grande, giusto il tempo di riprendere le forze. Poi, lungo via Cavour, la pioggia cessò, e arrivammo in piazza del Comune. Tutti schierati, il papa ci venne a salutare. Il sindaco Ascenzi disse che, se non ce la facevamo più, potevamo anche fermare la Macchina lì. E invece no, non si poteva certo mollare: il conducente Rosario Valeri, e Nello Celestini, guidarono Spirale di fede, una Macchina pensante ma bellissima da portare, fino a Santa Rosa. Era giusto ricordare i trent’anni: valeva la pena per un papa venire a Viterbo, e vale per tutti oggi venire a scoprire le sue bellezze”.
Gli aneddoti si susseguono, si confondono, sfumano. Luigi Neri, del monastero delle Clarisse, ricorda la visita dell’uomo che sarebbe diventato santo. Dentro, nella cripta: “Chiedeva spiegazioni su ogni cosa. A me domandò di un’iscrizione in latino, e mi prese alla sprovvista: non è mica facile parlare con un papa… E poi, si accorso subito che la teca che conserva il cuore della Santa proviene dalla sua Polonia: un particolare che nessuno sapeva, credo neanche il vescovo Boccadoro”. E si torna a don Luigi Fabbri, che ammonisce: “Andatevi a rileggere i discorsi che tenne quel giorno il Santo Padre. Parlò con tutti, e di tutto: della droga, dei disoccupati, dei giovani. Temi attualissimi, purtroppo. E perciò, oltre ai ricordi, non vada perso il messaggio che Giovanni Paolo II donò a Viterbo e ai viterbesi”. Martedì sono trent’anni.
(N.B. – Le foto pubblicate in questo articolo sono state gentilmente concesse da Massimo LUZIATELLI, fotoreporter del Messaggero)