I bambini. Quelli con la sciarpa che dicono fieri di tifare Roma ma che oggi forse hanno scoperto che c’è anche qualcosa di bello qui, sotto casa, e con lo stemma e i colori della loro città. I bambini con una bandiera forse troppo pesante da trasportare ma leggerissima da sventolare. I bambini con la tuta del settore giovanile, e la fiera sfilata durante l’intervallo, perché anche i leoncini hanno vinto e un domani si vedrà. E poi gli adulti, vestiti col vestito buono: vecchie e gloriose maglie tirate fuori dai cassetti perché oggi è una grande occasione, ed è doveroso presentarsi con qualcosa di storico, magari legato ad antiche vittorie, a trasferte epiche, a campioni che non ci sono più, ad amori folli e baci rubati.
Eccoci qua. La Viterbese ha rimesso il gallinaro al centro del villaggio. Il gallinaro, cioé l’amatissimo stadio Rocchi, l’unico luogo dove si può onorare un trionfo. A Rieti non si poteva, motivi d’ordine pubblico, e il corteo nella sera del Primo maggio, per le vie della città, non era la stessa cosa. Il calcio va celebrato nei suoi luoghi, sennò sarebbe come dire messa in discoteca, o fare shopping all’ospedale. Alla faccia della sacralità, il Rocchi trema quando tutti saltano anche se la partita non è ancora finita: “Chi non salta nerazzurro è”, laddove il nerazzurro è quello del Civitavecchia, che in campo sta giocando e le sta buscando dalla Vito. Salta anche Piero Camilli, circondato dai tifosi che prima l’avevano applaudito mentre saliva in tribuna: un applauso diverso da quelli tributati in passato a Gaucci (applauso interessato) o a Capucci (applauso pettinato). Questo invece è del terzo tipo: applauso di ringraziamento (per aver scelto Viterbo) e insieme di affetto, dopo la scomparsa in settimana di Silvio, il fratello del Comandante.
Salta Piero e alla fine salta anche il figlio Vincenzo, il presidente, sollevato e portato in trionfo dai suoi ragazzi e quelli della curva, che lo lanciano verso il cielo come se il cielo – il professionismo, magari la serie B – sia l’obiettivo finale da raggiungere. Oggi è iniziato un ciclo, pensano tutti, e non è speranza vana ma fondata sui dati di fatto, sulla passione di chi possiede la baracca, sulla certezza che il calcio – se fatto coi soldi e coi valori della provincia che lavora, e che funziona – può ancora dare gioie. No, non c’è spazio soltanto per i birbaccioni e i delinquenti, Viterbo può dare un piccolo grande esempio al pallone che verrà, anche a livello nazionale.
In tutto questo, la partita è stata un evento marginale. Ma che comunque la Viterbese già sicura del trionfo e rincoglionita dai bagordi, ha vinto: 2-1, in rimonta dopo il gol dell’ex Iezzi. Un successo che vale
perché conserva l’imbattibilità casalinga (cosa rara nella storia), e che ha regalato spazio a diversi giocatori poco utilizzati da Gregori, il mister squalificato ma applaudito e invocato dai tifosi, che a modo loro lo hanno già riconfermato anche per l’anno prossimo. Vegnaduzzo ha fallito il diciottesimo gol in campionato, che cercava per togliere a Toscano il titolo di capocannoniere del torneo: ci riproverà domenica prossima sul campo del Villanova. Fabietto Fapperdue è stato premiato per la centesima presenza con la maglia della sua città. Pacenza, il toro di Tolfa, “l’unico giocatore gialloblu che ha un lavoro vero” ha firmato il gol decisivo, di rara bellezza come quello, in rovesciata, del pari siglato da Gubinelli. C’era anche il sindaco, che ha visto il primo tempo e chissà se avrà fissato anche un appuntamento con la società per firmare la convenzione.
Tutto questo, prima dei salti, delle bottiglie di Ferrari, delle parrucche bizzarre, dell’invasione finale dei tifosi. A dimostrazione, dopo i fatti dell’Olimpico, che nel calcio ci sono invasioni e invasioni. Tie’.