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Anni di piombo, ma soprattutto di passione

Vittorio Emiliani

Vittorio Emiliani

Giornalismo e politica, entrambi intesi nel senso più alto del termine. E poi la cronaca nera, imposta dagli Anni di piombo, e ancora i rapporti personali coi grandi della prima Repubblica, e i ricordi, e gli aneddoti. Ha quasi ottant’anni, Vittorio Emiliani, e il suo racconto è un pezzo di storia d’Italia, vista con gli occhi di chi l’ha vissuta da un periscopio privilegiato – da giornalista prima de Il Giorno poi de Il Messaggero, del quale è stato anche direttore per otto anni, dal 1980 al 1987 -, senza mai rinnegare la sua ideologia politica (“Prima radicale, di quelli veri di Pannunzio e de Il Mondo, quindi socialista, anche se la tessera non ce l’ho più da un pezzo”) e sindacale. Già, perché quelli erano anni in cui i sindacati erano ancora un pezzo importante (si può dire libero?) della società, E perciò anche dei giornali. Tutto questo e altro ancora in un’ora e mezzo abbondante ieri sera a viale Trento, nel consorzio biblioteche tirato a lucido per il contenitore il Salotto delle Sei di Pasquale Bottone. Nell’occasione, chiamato il salotto delle sei e trentaquattro, perché è allora – alle 18 e 34, appunto – che comincia l’incontro con Emiliani. Che presenta il suo libro “Cronache di piombo e di passione”, edito per i tipi di Donzelli.

Gli anni di Piombo. “1980. Accadde più o meno un mese dopo la strage di Bologna. Ero direttore de Il Messaggero. I Nar, nuclei armati rivoluzionari, i terroristi neri più feroci, con il fratello di Giusva Fioravanti, Cristiano, e Luigi Ciavardini, ammazzarono un nostro tipografo (si chiamava Maurizio Di Leo, ndr), ma subito nella rivendicazione dissero che si trattava del cronista Michele Concina, già minacciato per alcuni suoi articoli, scritti non penso tanto per il quotidiano, quanto per il settimanale Panorama, dove pure Concina lavorava. Mi ricordo che le prime minacce arrivarono a me: una busta, con una pistola P38 ritagliata nella carta, e una scritta terribile: ‘Per Michele Concina’. Chiamai il cronista e gli dissi: Michele, cosa vuoi fare? L’azienda è a tua disposizione: vuoi andare a lavorare a New York, a Mosca, che all’epoca era paradossalmente il posto più sicuro dove andare? Lui disse di no, voleva restare a Roma, non voleva dargliela vinta, ai terroristi. Tre giorni dopo, quell’omicidio del tipografo, scambiato per Concina, anche se il primo era piccolo e basso, e viveva a Monteverde. Erano diversissimi. Da quel giorno tutti i giornali, tutti i giornalisti, furono sotto tiro della violenza politica. E sapete una cosa? Quell’omicidio nero avvenne un mese dopo la strage di Bologna: sono ancora convinto che fu il modo atroce con cui i fascisti festeggiarono il trigesimo di quella mattanza”. Brividi.

Che anni, quegli anni. “Sono arrivato a Roma quarant’anni fa, dopo venti anni di lavoro a Milano, Il Nord allora era fatto di città profondamente riformiste. Torino, lo stesso capoluogo meneghino, Bologna: città ordinate, organizzate, funzionanti. La capitale mi lasciò sgomento: era bellissima, ma sconvolta dall’immigrazione scellerata e dall’abusivismo. Le borgate, per esempio: chilometri e chilometri di di strade e palazzi, tutti abusivi, senza servizi, senza criterio. Si calcolò che ci vivessero 800 mila persone, un terzo della città. Questo mi si presentò, non la Roma del centro storico, né di Prati, né della Balduina, dove andai a vivere. La città delle borgate, dei quartieri dei murati vivi, come scrisse Antonio Cederna. Ma era quella la Roma con cui bisognava fare i conti”.

La politica. “C’era stato il centrosinistra. C’era una grande vivacità intorno e dentro i giornalisti, per la loro autonomia politica e sindacale. Senza quella grandissima effervescenza politica sono convinto che non avremmo mai battuto il terrorismo, perché sarebbe stato inutile e inefficace combatterlo soltanto con la repressione, con le leggi sociali. A partire da Il Messaggero, che sotto la proprietà Montedison, e dopo aver respinto il progetto di cessione dei Perrone, si ritrovò come editore un partigiano, bianco, come Cefis, e per direttore quell’Italo Pietra che pure era stato partigiano, e che mi portò da inviato a Roma dal Giorno milanese. La redazione era autonoma, laica, democratica e antifascista, grazie alla garanzia di Francesco De Martino, l’allora segretario del Partito socialista. Un giornale di grandi firme, da Vittorio Gorresio a Luciana Castellina a Paolo Forcella, e anche di grandi battaglie, politiche e civili”.

Emiliani e Viterbo. “Viterbo, come Roma del resto, me la fece capire Giuseppe De Rita, a capo del Censis che già allora si avventurava in indagini sociologiche. Disse: a Viterbo ci sono parecchie pensioni di invalidità, segno di ottimi referenti nelle stanze del potere, ma c’è anche economia agricola, le nocciole, le ceramiche a Civita Castellana. Insomma, un accrocco, fatto di gente che lavora, stile sobrio, provincia in crescita. Come in quegli anni crebbe tutto il centro Italia, a rimorchio del Nord che era già avanti, mentre il Sud invece si sarebbe evoluto soltanto a macchie di leopardo. Ma il Messaggero, in posti così, era uno strumento di straordinaria influenza, che poteva fare tante cose buone”.

Vota Gigetto. C’è poi l’incontro con Gigi Petroselli, il grande sindaco di Roma partito proprio dal capoluogo della Tuscia. “Petroselli lo conoscevo pochissimo come segretario del Pci romano: da cronista, avevo apprezzato il suo progetto riuscito di portare Giulio Argan al Campidoglio, ma nessun contatto personale. Ma presto si stabilì un’amicizia vera. Un giornò mi telefonò in redazione, mi chiese così, all’improvviso, un parere su una vicenda romana, forse sulla metropolitana, forse sull’inquinamento del Tevere. Si accorse subito che ero sorpreso da quella chiamata inedita, lo capì e mi disse: ti ci devi abituare, ti telefonerò spesso perché il tuo, quello de Il Messaggero, è un punto di vista privilegiato sulla città, una visuale che neanche il Pci può avere. Da allora si creò un’amicizia vera, e leggendo la biografia del sindaco scritta dalla vostra concittadina Angela Giovagnoli, ho capito una cosa che avevo già intuito: Petroselli, partendo dal microcosmo viterbese, aveva già perfettamente compreso quali fossero allora i problemi di Roma. Ah, se penso in che mani siamo finiti oggi…” Ogni riferimento ad Ignazio Marino, o prima a Gianni Alemanno, non dovrebbe essere troppo casuale.

Mentre su viale Trento si fa sera, Emiliani prosegue nei suoi ricordi, nel giudizio – sorprendentemente in chiaroscuro – su Bettino Craxi (nè da demonizzare, né da santificare), nelle infinite novelle sindacali, nel confronto con tre vecchi allievi de Il Messaggero seduti in platea. Nelle grandi battaglie sociali e d’opinione condotte – sempre con successo – da quello che allora era senza ombra di dubbio il giornale di Roma. E quando si riprendono le scale per uscire, in attesa dell’aria di primavera, viene da chiedersi come sia stato viverla, quell’età dell’oro e di passioni. Con una certezza: no, non tornerà più.

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