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I rischi di un cattivo riordino territoriale

 

Graziano Delrio

Graziano Delrio

Graziano Delrio è transitato di recente dalla presidenza dell’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni italiani), a Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, ed ora alla presidenza del Consiglio come sottosegretario, suscitando grandi aspettative, innanzitutto nei colleghi amministratori locali rimasti sul territorio

Il provvedimento su Città metropolitane, Province, Unioni e Fusioni che ha sottoposto all’approvazione del Parlamento e che diventerà operativo dopo l’approvazione alla Camera, presenta non poche discrasie e qualche rischio. Centrale nella ratio del provvedimento è il Comune, come comunità primaria d’identità locale. Bene. Se però lo si priva della sua millenaria autonomia proprio non ci siamo.

Il carattere delle norme ha una impostazione autoritaria e centralistica con lo Stato che, anziché favorire una libera autodeterminazione delle comunità locali, le ingabbia in rigidi schemi formali di forme associative rese obbligatorie; ne fissa limitazioni di popolazione a volte per escludere, altre per includere i Comuni; affida il ruolo principale ad una specie di Superman, il sindaco, che, senza possibilità di delegare, dovrà occuparsi del proprio Comune, della propria Convenzione o Unione, della propria Provincia e chissà forse presto, anche del Senato delle autonomie, e per giunta gratis. In caso d’inadempienza è previsto l’intervento, come ai tempi di Giolitti, del prefetto.

Si punta all’innovazione, e ciò è condivisibile, se però il cuore di tale innovazione è l’Unione di Comuni, non ci siamo. L’unione nasce con la 142/90, come passaggio preliminare verso la fusione obbligatoria, dopo 10 anni, dei Comuni, sul presupposto sbagliato, che in Italia siano troppi 8.100 Comuni, che essi siano dispendiosi e quindi si debba risparmiare mettendoli insieme. In seguito l’Unione fu prevista senza la fusione obbligatoria, divenendo quindi, grave errore, un nuovo ente locale, aggiuntivo ai Comuni associati, in contraddizione con la semplificazione invocata.

I 36.000 Comuni francesi, i 12.000 tedeschi, gli 8.100 spagnoli ecc. dimostrano che non è il numero il problema, ma che si ha bisogno di nuove modalità di gestione. Non servono per questo nuovi enti locali che intaccano la rappresentanza dei sindaci indebolendoli e si portano dietro la politica ed il manuale Cencelli con l’instabilità conseguente, come dimostra l’accresciuta litigiosità nelle recenti Unioni; né tantomeno l’ubiquità dei prefetti. C’è da sperimentare invece nuove modalità di gestione, affidate non al personale politico, ma come detta la riforma Bassanini, al personale impiegatizio ed alla dirigenza, a cominciare dal segretario comunale, magari agganciando ai risultati ottenuti il loro salario..

Da più parti si chiedono riforme, ma allora semplifichiamo e fluidifichiamo considerando però che il comparto enti locali, che rappresenta soltanto l’1,7% della spesa pubblica, ha ceduto in questi anni risorse finanziarie cento volte più dello Stato e delle Regioni, restringendo ogni margine possibile di risparmio e di economie di scala; ciò è come tagliare il ramo sul quale si è seduti. Allora? Alcune correzioni mi paiono doverose, soprattutto di rotta: verso i ministeri e le Regioni. Facciamo un primo importante passo, ma nella giusta direzione.

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