Blera non è la Sardegna. Ma in alcuni tratti le somiglia molto. Il paesaggio, anche qui è aspro, forte, primitivo, la terra pietrosa e riarsa, i colori sono quelli della macchia mediterranea e, ogni tanto, si vedono i muretti a secco invasi da una vegetazione essenziale, ma irruente. Qualcuno, invece ha visto in questa terra particolare, similitudini con la Valle del Rodano. In macchina con noi ci sono anche Pasquale Pace e Davide Tanganelli.
Nonostante le indicazioni dettagliate, non riusciamo a trovare la strada che porta all’azienda San Giovenale. È una calda giornata di fine estate e l’idea di gironzolare a vuoto, seppur con il climatizzatore in modalità polo Nord, non convince nessuno dei presenti. Ricorriamo alle nostre risorse in zona: raggiungiamo telefonicamente Nicola Fazzi (direttore della Cooperativa agricola Colli Etruschi). È ancora con il cellulare in mano che ci spiega la direzione, quando lo preleviamo e lo trasciniamo con noi ignorando amabilmente le sue proteste dovute a non so quali improrogabili impegni familiari. Naturalmente il posto è più semplice da trovare di quanto avessimo immaginato. La strada stretta e sterrata mostra terre coltivate sullo sfondo e i primi vigneti, ma la natura sui bordi non ha l’aria di farsi sottomettere, mantiene un fascino ribelle e scontroso.
Appena si arriva non si può fare a meno di notare la cantina: una rivisitazione in chiave contemporanea di un annesso agricolo in cui si condensa la tradizione della tipologia costruttiva e l’innovazione nell’uso e nell’accostamento dei materiali. Un’opera architettonica che arriva a farsi segno senza violentare il paesaggio.
Emanuele Pangrazi, il giovane proprietario, ci accoglie qui e ci racconta che il progetto (Fabrica Studio Associato, arch. Michela Esposito) ha ricevuto la menzione “Under 40” nella sezione realizzazioni del Premio Internazionale di progettazione Spazio DiVino, (bandito dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma in collaborazione con il Gambero Rosso). All’interno le linee convergono nella bellissima vetrata di fondo che esibisce il dialogo con il territorio: apre alla vista di un vigneto ad alberello e di colline dolci che digradano fino al mare.
Emanuele Pangrazi ha una visione lucida delle cose, supportato da un forte spirito imprenditoriale e un carattere fermo che lo hanno aiutato a concretizzare il progetto di una cantina di alto livello in un territorio tradizionalmente vocato più all’oliveto che al vigneto. E il suo impegno si è concentrato su un unico grande vino – 5000 bottiglie prodotte nel 2010 – che si è imposto subito all’attenzione del mercato e della critica.
Ci spiega come è nata l’idea di dedicarsi al vino e la determinazione con cui ci è riuscito. “Nel 2005, era novembre, eravamo qui con tutta la famiglia per la raccolta delle olive. Le mie figlie si sono divertite così tanto che l’anno successivo hanno rinunciato a qualsiasi altra cosa per tornare. Così ho iniziato a interessarmi all’idea dell’agricoltura. Nel 2006, l’11 agosto, ho visto i terreni e il 12 settembre avevo già concluso la compravendita. Il 29 settembre ho partecipato a un bando per il reimpianto. Abbiamo iniziato con 3 ettari, poi ne abbiamo aggiunti altri 2, adesso siamo arrivati a 7 ettari. In ogni caso l’idea di costruire qualcosa di importante da lasciare ai miei figli mi aveva preso. E così, in qualche modo, il progetto si è evoluto fino a profilarsi la possibilità di un vigneto e di una cantina. In fondo una tradizione non è altro che un’innovazione che ha funzionato. Per avere alle spalle un secolo di storia ci dovrà pur essere qualcuno che ha iniziato. Non avendo esperienza nel settore, ho cominciato a girare, a documentarmi. E siccome conosco il detto “una vita, una cantina”, non avevo possibilità di errore per cui ho cercato di partire bene, affidandomi alle persone giuste”.
Carlo Zucchetti: “Parlando di persone giuste, immagino ti riferisca a Marco Casolanetti, viticoltore esperto che fa un grandissimo vino, il Kurni, Oasi degli angeli. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio lui come consulente?”
Emanuele: “Mio padre è marchigiano, sono stati dei miei parenti a parlarmi di Marco e a creare il contatto. Sono sensibile al talento e, appena conosciuto, ho capito che era la persona che cercavo. Senza dubbio Marco è una persona estrema ma, per come la vedo io, quella è l’unica posizione possibile, anche le critiche e gli affetti sono estremi e forse lo è anche il mio progetto: l’idea di creare un caso teso a valorizzare l’intero territorio. Quando Marco è arrivato in azienda, si è reso conto delle potenzialità di questa zona che ha degli oggettivi privilegi di natura: vicinanza con il mare che riesce a far arrivare i suoi benefici fin qui determinando condizioni climatiche ottime, soprattutto nel periodo prevendemmiale; il vento e il suolo fatto di argille e pietre e tutto un insieme di aspetti che ricordano la Valle del Rodano. Questo ha influenzato anche la scelta dei vitigni: grenache, syrah e carignan”.
Carlo Zucchetti: ”La tua azienda è certificata biologica, ma Marco porta avanti anche una sua interpretazione di biodinamica. Qui come avete deciso di orientarvi?”
Emanuele: “Siamo certificati biologici, ma in realtà il nostro è un approccio ancora più estremo, usiamo due prodotti a base di propoli aglio e alghe e soltanto acqua sorgiva. Con il tempo vorrei introdurre le lavorazioni con i cavalli. E poi c’è l’aspetto della sostenibilità a cui tengo molto: tetti verdi, fotovoltaico geotermia, pareti e coperture ventilate mi permettono di conservare l’energia e di non ricorrere a combustibili fossili.”
Emanuele indicando fuori “Quando abbiamo iniziato, abbiamo pensato a un impianto di grande intensità, parliamo di 11.000 ceppi per ettaro con rese bassissime (25 qli per ettaro). Qui davanti potete vedere invece un vigneto in fase sperimentale con 44.000 ceppi per ettaro” poi si sposta per mostrarci i grandi serbatoi in acciaio e spiegarci il funzionamento della cantina: “Il vino rimane per 15 giorni in questi serbatoi in acciaio dotati di tecnologie avanzate, poi passa in barrique della Tonnellerie de L’Adour, quelle bordolesi per far respirare di più il vino, dove resta per 20 mesi, infine avviene l’affinamento in bottiglia”. Emanuele ci invita a seguirlo nella barricaia, un ampio spazio interrato dove un impianto di geotermia orizzontale contribuisce a mantenere valori termoigrometrici costanti.
Le barrique allineate cadenzano lo spazio, lo riorganizzano secondo un principio seriale e se ne impossessano. Assaggiamo dalle barrique i vini dai vitigni in purezza mentre Emanuele ci parla dei progetti per il futuro: un bianco in fase sperimentale e qualcosa che è ancora allo stato embrionale, forse dei cereali.
Fuori il sole è alto, è ora di andare, ci accompagna la piacevole consapevolezza che il nostro territorio sta riuscendo ad esprimere appieno le sue potenzialità e inizia a creare un’attrattiva, un movimento di imprenditori giovani e dinamici con progetti ambiziosi e obiettivi chiari. Parlando di eccellenze della zona, accompagniamo Pasquale e Davide al Frantoio Colli Etruschi approfittando di una guida d’eccezione come Nicola Fazzi.
Questa è la Tuscia che ci piace: ottimo vino e non pessima kaffeina.