Lui è uno duro e puro. Un combattente con le palle. Di quelli che, avute le carte per raccontare finalmente la verità su questa o quella faccenda, andava in redazione intonando “eia eia alalà”. Perché in questa città di provincia lui, direttore di un foglio locale dal 2004 al 2011 (Nuovo Viterbo Oggi prima, e L’Opinione poi), era il paladino dell’onestà intellettuale. L’unico ad esercitare il mestiere di giornalista senza prestare il fianco ai poteri forti. Perché era “libero e incorruttibile”. E infatti s’è visto (ah già che c’è la presunzione d’innocenza, per carità).
“Ogni qualvolta intraprendeva una campagna di stampa contro un personaggio la sottoponeva all’attenzione del giornalista che doveva materialmente seguirla come una campagna dall’alto valore morale, in quanto presentava la condotta del personaggio come altamente riprovevole e contraria all’interesse pubblico”. Così hanno raccontato al sostituto Massimiliano Siddi i sei fuoriusciti dall’Opinione che hanno presentato l’esposto in via Falcone e Borsellino.
Gli stessi – Roberto Pomi, Daniele Camilli, Luca Appia, Glauco Antoniacci, Mario Ramundo e Alberto Zadro – che hanno anche riferito dell’ormai arcinota riunione del 10 agosto 2011, quando nel mirino del cronista duro e puro di Zepponami, Paolo Gianlorenzo, era finito l’imprenditore – ma anche sindaco di Grotte di Castro e da ieri assessore di Palazzo Gentili (all’epoca era presidente del consiglio provinciale) – Piero Camilli.
“Quel figlio di puttana, spero che possa morire presto, ma non di morte naturale, lo deve ammazzare qualcuno. E’ un bastardo, un truffatore. Piero Camilli è un bandito nostro nemico. Se qualcuno c’ha la possibilità di trovare qualcosa per ammazzarlo, portatelo a me. Perché il signor Piero Camilli ci ha truffato 200mila euro”. (Mica bruscolini). E ahivoglia, adesso, a dire “sfido chiunque a trovare un solo articolo in cui lo abbia mai attaccato (riferito a Camilli, ndr)”, ipse dixit ad un quotidiano viterbese.
Il 20 gennaio 2012, Pierone Camilli querela Gianlorenzo per diffamazione e minaccia. Ma anche “per ogni altro reato che potrà essere ravvisato nei fatti esposti”.
In quell’occasione, l’imprenditore grottano racconta al pm Siddi la sua versione dei fatti chiarendo, anzitutto, di conoscere “Paolo Gianlorenzo in maniera molto superficiale, avendolo incontrato qualche rara volta ed avendo intrattenuto con lui qualche breve conversazione. Ho appreso dai giornali che, nell’ambito di una riunione di redazione, mi ha indicato come nemico da uccidere e causa di tutti i guai economici del suo giornale. In particolare ha fatto riferimento ad un impianto a biomasse che, a suo dire, dopo un iniziale accordo per la realizzazione io avrei bloccato in sede di conferenza dei servizi per un mio preciso tornaconto personale, in quanto avrei preferito realizzarne un altro per smaltire e bruciare le carcasse di agnello”. Il proprietario della Ilco spiega al pm che “si tratta di un’assurdità anche sotto il profilo strettamente economico, visto che le carcasse hanno un valore commerciale e sarebbe folle bruciarle”.
Questa la premessa. Ora il racconto, che parte dai primi mesi del 2011, quando Camilli viene contattato dal Ferdinando Guglielmotti (proprietario di un caseificio a Montalto di Castro e anche editore del quotidiano diretto da Gianlorenzo). “Si presentò nel mio ufficio insieme ad un certo ingegner Caracciolo e al direttore del consorzio Cobalb Pierangeli per sottopormi un progetto finalizzato alla realizzazione di un impianto a biomasse nel territorio di Grotte di Castro, che avrebbe dovuto smaltire una piccola parte dei fanghi prodotti dal consorzio, e gli scarti di prodotti agricoli in quantità maggiore”.
Sulle prime Camilli è entusiasta perché “nel mio comune – spiega a Siddi – ha sede il Cc.Orav, struttura di produzione agricola che produce molti scarti di lavorazione”. Sempre durante quell’incontro Guglielmotti, Caracciolo e Pierageli chiedono poi a Camilli se ci fossero terreni disponibili in zona agricola. “Indicai quello della mia collaboratrice domestica, che lo aveva ereditato. Più tardi venni a sapere che l’affare era stato concluso con una conditio sine qua non: l’effettiva realizzazione dell’impianto, oltre il versamento di una minima caparra”.
Successivamente viene organizzato un incontro. “Insieme all’ingegner Bianchi dell’ufficio tecnico, partecipai ad una riunione per quantificare la cifra da versare al comune quale ristoro per gli eventuali danni ambientali prodotti dall’impianto. Mi sembra di ricordare che, in base a precisi parametri, fu stabilito l’importo di 50mila euro per vent’anni”.
Poi la battuta d’arresto. “Non ebbi più notizie fino a quando venni convocato in Provincia per una conferenza dei servizi in quanto sindaco del comune interessato”. A Camilli viene trasmessa la documentazione e, conoscendo il suo temperamento, deve essere saltato dalla sedia. “Mi accorsi che il progetto era stato completamente stravolto rispetto a quanto concordato verbalmente”. La quantità di fanghi da smaltire era infatti lievitata a 500mila quintali (alla faccia di una piccola quantità, visto anche che “da informazioni assunte – dice Camilli al pm – i fanghi prodotti dal Cobalb potranno ammontare a circa 10mila).
In sede di conferenza dei servizi, manco a dirlo, il sindaco di Grotte boccia il progetto. Così come i colleghi dei comuni limitrofi.
“Sono convinto che le minacce proferite da Gianlorenzo nei miei confronti fossero funzionali a condizionarmi nel mio operato di sindaco con riguardo alla realizzazione dell’impianto. Peraltro posso anche aggiungere – dice in conclusione Camilli – di essere stato contattato telefonicamente da Gianlorenzo: mi chiese se potevo dargli una mano in quanto la testata del giornale versava in difficili condizioni economiche (la telefonata sarebbe precedente alla famosa riunione di redazione dell’agosto 2011, ndr)”.
Ci provò, Gianlorenzo, ma Camilli evidentemente gli aveva dato picche. Per di più aveva fatto il pollice verso al progetto dei suoi editori. Un affronto troppo grosso per uno che vuole fare il giornalista solo ed esclusivamente per far trionfare verità e giustizia. Sempre e comunque, nonostante tutto e tutti. Tant’è, che con la sua disfatta, “a Viterbo è deceduta la libertà di stampa. Chi vorrà fare un’inchiesta giornalistica dovrà evitare di avere fonti ed usare il telefono. Fare inchieste in questa città non servirà a mandare alla sbarra persone che usano la pubblica amministrazione per fare loschi affari ma ci finirà il giornalista”. Ipse dixit, allo stesso foglio di prima.
Caro Andrea (il tuo stile non ha bisogno di firme) non fermarti alle apparenze e dare x scontato che quello che “l’associazione” dichiara. Il processo per fortuna lo faremo a porte apertr anche davanti al Gup. Vedremo cosa ribatteranno alle mie verità