Una delle conquiste più importanti del costituzionalismo moderno è l’affermazione della universalità dei diritti. In questa nuova prospettiva, i bisogni fondamentali dei cittadini (dalla salute, all’istruzione, al lavoro, alla previdenza) sono considerati dalla Costituzione, ossia dalla norma primaria dello Stato, non come oggetto di carità, o di interventi sporadici del settore pubblico, bensì come diritti, cioè a dire legittime pretese che la legge (quindi il potere politico) e i soggetti istituzionali (la pubblica amministrazione nel suo complesso) devono garantire a tutti, a prescindere dalle condizioni socio – economiche di partenza. Il compito del governo nazionale e dei governi regionali è quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono in concreto l’esercizio dei diritti (vedi principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art.3, comma 2 della Costituzione).
Nel contesto italiano, la psichiatria democratica, ha il merito di aver contribuito all’umanizzazione del malato psichico, che non è più considerato “altro”, “diverso”, “anomalo”. Questa nuova concezione, sancita sul piano giuridico dalla legge 180, se non ha impedito del tutto i soprusi inflitti ai malati e alle loro famiglie, ha permesso di riconoscerli come tali, condizione necessaria per poterli mettere finalmente al bando. Questa importante affermazione deve però fare i conti con una verità storica: i diritti, per quanto solennemente sanciti sulla carta, non hanno mai avuto la capacità di auto–realizzarsi concretamente da soli. Da ciò si può comprendere quanto sia difficile e faticosa la strada per tutelare coloro che, a causa di patologie croniche, si trovano in una posizione di debolezza e di sempre più scarsa rappresentanza istituzionale dei loro interessi.
La storia di malattia è sempre storia di vissuti sentimenti: essi sono parte della nostra vita, più forti di qualunque ragione, perché un sentimento è difficile da spiegare, da comunicare agli altri, specie quando entra in contatto con la sofferenza. Rosella Bonito Oliva dichiarava “…Là dove la cura apre la condizione del sofferente al mondo e all’altro, riattivando la possibilità di ricostruire una storia come propria, il medico è richiamato a una condizione comune con il malato in cui ragione e sentimento non possono più rimanere divisi. Prima ancora del caso patologico è in gioco la totalità dell’umano sempre alla ricerca di appigli e approdi a difesa di un’instabilità che può risolversi nella libertà come nell’eccentricità della malattia…”
A Viterbo l’Afesopsit è l’associazione dei familiari dei malati psichici, di cui l’anima è Vito Ferrante. Che non traccia un quadro positivo della situazione: “A distanza di un anno la situazione si è aggravata ulteriormente e i servizi territoriali, i centri di salute mentale e i centri diurni sono in grave difficoltà per mancanza di personale e per mancanza di modelli organizzativi adottati dal dipartimento di salute mentale di Viterbo. Manca la presa in carico dei pazienti e delle loro famiglie, in quanto i pochi operatori sanitari nonostante il lavoro svolto spesso oltre misura rispetto al dovuto, non riescono a garantire la continuità terapeutica, anche per il blocco del turn over e per lo spostamento degli stessi da un distretto all’altro per sopperire alla mancanza del personale.”
Il nodo di tutti gli interrogativi dell’essere umano in ogni situazione di disagio è il bisogno di assistenza. E’ necessario quindi definire innanzitutto il ruolo del pubblico nell’ offrire ai diversamente abili quelle prestazioni sia sociali che socio-sanitarie di cui hanno bisogno, stabilire le modalità di sostegno alle famiglie e soprattutto in caso di difficoltà di quest’ultime bisogna garantire la continuità assistenziale con interventi idonei ed adeguati.
Continuità assistenziale che si può offrire solo se sono garantiti gli organici del personale sanitario e sociosanitario oggi purtroppo in grave decremento negli anni, con incisivo calo di qualità nelle azioni sanitarie di prevenzione, cura e sostegno ai pazienti e ai loro familiari. La pietas, valore etico primario di rispetto reciproco, deve trovare un suo spazio nei contenuti e nelle azioni: non si può vivere nell’indifferenza e nel qualunquismo.
Una società si può considerare civile nella misura in cui si prende cura e sa assistere le fasce più deboli, crede nelle potenzialità umane in tutte le sue dimensioni. La malattia fa parte dell’uomo, ma l’uomo deve poter essere curato nei momenti della sua fragilità, senza stigma, né discriminazioni. E allora chiediamoci: la nostra società quanto è civile?