Era la prima metà degli anni sessanta. Ero uno studente di ginnasio e prima delle vacanze di Pasqua, come da consuetudine, ci portarono tutti alla Messa. Fuori della cattedrale di Viterbo alcuni studenti più grandi vendevano un giornale di solo quattro pagine: si chiamava Sottobanco. Lo comprai e chiesi dove si trovasse la redazione. Da allora sono diventato non solo un frequentatore ma uno degli animatori del giornale che ha fatto uscire 50 numeri, fino al maggio del ’68 (data fatidica!).
Perché ve ne parlo? Perché la redazione del giornale, che si trovava a via del Collegio, era anche un luogo di incontro tra giovani (l’allora famoso Centro Studentesco). Lì si ritrovavano ragazzi e ragazze di tutte le scuole viterbesi e parlavano di tutto, dalla musica alla religione, dalla politica alle grandi questioni internazionali, dallo sviluppo delle scienze all’amore. Il fatto che in una città di provincia si incontrassero i giovani dei due sessi faceva gridare allo scandalo i soliti bacchettoni. Ma noi avevamo un atteggiamento quasi di sfida, convinti che il mondo stesse cambiando e che le menti si dovessero aprire al nuovo.
Qualcuno potrebbe non rendersi conto di quanto fosse provocatorio portare capelli lunghi, camicie a fiori e jeans stretti di velluto di vari colori, e magari ascoltare i Giganti, i Rolling Stones, Luigi Tenco e Arlo Guthrie, ma vi posso assicurare che le lotte in famiglia erano davvero dure. Tutti noi eravamo consapevoli di stare vivendo una stagione felice dell’umanità ma contemporaneamente che il mondo aveva bisogno di noi. Per questo era importante conoscere, informarsi, capire.
Scrivere su Sottobanco impegnava a sapere, a studiare, a documentarsi. Per questo creammo un centro di documentazione fatto prevalentemente con l’abbonamento ad una ventina di riviste e periodici di ogni settore e con ogni impostazione ideologica.
Direttore responsabile del giornale e del centro studentesco era un prete, don Angelo Gargiuli, a cui riconosco la lungimiranza nell’averci dato spazio, nell’averci lasciati liberi, anche di sbagliare. Le sue idee spesso non coincidevano con le mie e con quelle di altri ma era abituato al confronto, lui che non si faceva mettere i piedi sulla testa da nessuno e che rischiava in prima persona.
La redazione, composta da una ventina di studenti e studentesse era solita lavorare in gruppo: si decidevano i contenuti di ogni numero, si assegnava l’incarico della stesura, si leggevano gli articoli e si impostava l’impaginato. Poi i più grandi assicuravano la loro presenza in tipografia per la correzione delle bozze, in mezzo alle macchine linotype in funzione, piene di inchiostro.
Tra le tante iniziative, organizzammo l’ascolto commentato di “C’era un ragazzo che come me…” sulla guerra del Vietnam, approfondimmo Lettera a una professoressa di don Milani, discutemmo del Concilio Vaticano II, ma anche di politica italiana e di rivoluzioni.
Da quel centro sono venuti ingegneri, medici, sociologi, insegnanti, psicologi, architetti, matematici, informatici ecc. Tutta gente che nel tempo e nella propria professione ha continuato a mettere in pratica uno stile di vita, un metodo e un pensiero che ancora oggi fatica a trovare analogie in questa città.
Eppure non tutti la pensano allo stesso modo, non tutti votano lo stesso partito.
Al liceo avevo un professore di Latino e Greco che i professori “impennacchiati” (come diceva lui quando voleva prendere in giro i boriosi, pieni di se’) consideravano a dir poco “sui generis” o più semplicemente “strano”. Non era un rivoluzionario, ma un pensatore libero, una sorta di anarchico della cultura. Quando entrava in aula al mattino, la prima cosa che faceva era leggerci le notizie principali del giornale, commentarle e aspettarsi da noi i nostri commenti. Poi quegli articoli, insieme a qualche passo dei documenti conciliari, doveva essere tradotto in latino da tutta la classe.
Erano gli anni della Zanzara del Parini (chi se la ricorda?). E lui prese le difese degli studenti che avevano pubblicato quel giornale, con argomenti che andavano dalla letteratura greca alla costituzione al concetto di diritto.
Perché vi racconto questo, vi chiederete? Perché si tratta di due esempi di veri educatori che sanno quanto è importante creare opportunità di crescita per le giovani generazioni e sanno quanto il sapere è decisivo per il bene di un paese. I giovani hanno bisogno di luoghi e atti che li mettano in condizione di confrontarsi, di parlare, di crescere praticando la democrazia. Ma a Viterbo non esistono questi luoghi, non esistono opportunità che rappresentino una vera scuola di politica. Anche le scuole di partito sono finite. Rimane solo internet con i suoi aspetti positivi, i suoi limiti, le sue ambiguità.
Gli adulti non sono stati lungimiranti, in questi anni, preferendo sbrigativamente assicurare un benessere superficiale pur di liberarsi del dovere di formare, di educare, di lasciare un ideale testamento di democrazia. Le generazioni e le istituzioni è bene che ricordino che hanno anche un compito educativo nei confronti del futuro.
E, per chiudere, riprendo un commento al mio articolo precedente.
Concordo con il lettore/lettrice che gli indignati rasentano il 100% degli elettori. Il mio intento era solo quello di ricordare che tutti noi abbiamo una responsabilità nei confronti della situazione attuale. Finché sembrava che tutto filasse, nessuno si è chiesto come finivano i soldi di tutti, come lo Stato spendesse quanto raccoglieva dai nostri tributi. Anzi più di qualcuno cercava di ottenere vantaggi personali dalla spesa facile e dalla borsa aperta.
E poi, quanti scelgono di chiedere la fattura quando pagando in nero possono risparmiare diversi soldini? Non ci lamentiamo poi se ci sono gli evasori…
Ma questa è un’altra storia.
Caro Enzo,
Certo che mi ricordo di Sottobanco. Ci scrivevo anch’io, quando ero alle medie e poi al ginnasio. Non so come ho fatto a trovare questo tuo post, vagando oziosamente in Internet in un afosissimo pomeriggio domenicale (7 Luglio 2013) a… New York (abito e lavoro qui da molti anni). E non so se ti ricordi di me, Paolo Mignatti, uno di quelli di cui parli nel post, che frequentavano il Centro Studentesco. Siamo anche stati insieme a Roma, un anno (forse il 1966 o 67?) al congresso nazionale della stampa studentesca, a Roma alla Domus Pacis. Grazie per avermi riportato col tuo scritto a ritroso nel tempo, ad anni importanti che ricordo con molto affetto. A quei tempi i professori del Buratti mi dicevano che avrei dovuto fare il giornalista, o lo scrittore (ero bravo in Italiano). Peccato non averli ascoltati: ho finito per fare lo “scienziato”, con una laurea in Medicina buttata via per fare ricerca, una fuga dall’Italia (come tanti) e ora una nazionalita’ americana. E tu?
Chi era il professore”sui generis” del liceo? Non certo Pesaresi…
Spero di avere tue notizie.
Un caro saluto.
Paolo