Un prodotto interno lordo da bassa classifica (vicino al settantesimo posto tra le province); un apparato industriale che continua a perdere pezzi (duemila imprese fallite nei primi nove mesi del 2012); una disoccupazione ben oltre la media nazionale (più del 40% quella giovanile); in compenso una densità di istituti di credito da far impallidire Roma e Milano. Solo nel capoluogo 52 sportelli in rappresentanza di 25 sigle. Una vastissima gamma di banche (italiane e straniere) per un bacino di utenza francamente limitato in clienti e risorse. Incredibile. O, forse, no? Viene da chiedersi: dove sono tutti questi soldi e da dove vengono? E sono così tanti i paperoni della Tuscia? O, più verosimilmente, Viterbo e il suo hinterland sono diventanti negli anni luoghi di passaggio di flussi incontrollati di denaro? Certo lo status economico-finanziario non offrirebbe grande appeal per chi vuole fare investimenti che non siano in lavanderie, più o meno avviate. Viterbo che ha scoperto di avere il cuore pulsante di una city? Difficile assai. Più corretto anche se vago pensare ad una strana anomalia.
Anche perché il territorio viterbese presenta tutte le stimmate della crisi: sofferenze bancarie salite in un anno del 63%, erogazioni di mutui scese tra il 45% e il 50%, netto taglio nella concessione di crediti alle imprese. Uno scenario che si spiega con una semplice formula: le banche chiedono sempre maggiori garanzie e le imprese hanno sempre meno voglia di rischiare. Ed allora meglio tenere in casa i risparmi (una volta si sarebbe detto, sotto il materasso) che tentare avventure dall’esito incerto. Filosofia in linea con una mentalità consolidata.
La cassaforte viterbese registra il più cospicuo incremento di depositi bancari tra quelli del Lazio. Cioè il risparmio resta ancora l’investimento privilegiato nonostante la difficile congiuntura. E si sceglie preferibilmente l’istituto locale per «mettere i soldi»: oltre il 60% rispetto ai network di dimensione nazionale e/o continentale. La Banca di Viterbo (16 sedi) per esempio «lavora» e riversa in zona il 90% del denaro raccolto. Un trend inverso a quello delle banche nazionali che soltanto in parte (comunque sotto il 50%) reinvestono sul territorio preferendo dirottare il capitale su siti più sicuri e remunerativi. Del resto le risorse a disposizione delle imprese del posto sono state falcidiate dalla crisi: il 64% di esse è stato impiegato per sostenere le spese correnti; il 13,9% per pagare il personale; il 45% per acquistare materie prime e semilavorati; il 31% per far fronte ai debiti verso clienti e fornitori. Per molti il ricorso alle banche si è reso necessario anche se sono di più coloro che hanno scelto il fai da te. Insomma, andando ad intaccare il patrimonio di famiglia. E il 2013? «Sarà ancora un anno molto difficile – prevede il direttore generale della Banca di Viterbo, Massimo Caporossi – e per uscirne al meglio sarà necessaria una forte dose di coraggio da parte di tutti, banche e imprese. Altrimenti continueremo a contare un sempre maggior numero di disoccupati».
Viterbesi risparmiatori. Da record
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