Un freddo cartello sul gabbiotto che avvisa i clienti di rivolgersi alle casse automatiche. Un’asciutta lettera di convocazione urgente per quei nove che dentro quel bugigattolo al Sacrario sono stati seduti per anni. E in due mosse finisce il lavoro di una vita. Quando pensavi di aver trovato un po’ di pace, forse no, almeno un minimo di certezze di avere uno stipendio a fine mese, ecco proprio allora succede quello che non ti aspetti. Succede che ti rechi sul posto di lavoro, trovi un funzionario della società che ti dice: “Voi non potete entrare”. E se non puoi entrare è perché ti hanno licenziato. Anzi no, ti hanno comunicato la “non proseguibilità del rapporto”. Cioè loro vorrebbero farti lavorare ma proprio non possono.
E’ quanto successo ieri ai nove ex soci della Autoservice, la cooperativa che ha gestito i parcheggi a pagamenti nel capoluogo, fino a quando, siamo nel 2009, il Comune ha deciso di gestire il servizio tramite la sua municipalizzata. E’ allora che per loro è iniziata una lunga battaglia legale per ottenere l’assorbimento all’interno della società. Battaglia fatta di ordinanze (la prima proprio del 2009) sempre favorevoli alle istanze dei lavoratori, puntualmente osteggiate con ricorsi dal Comune. E ancora sentenze di merito (come quella che il giudice del lavoro del Tribunale di Viterbo ha pronunciato nel febbraio del 2012, in base alla quale sono stati finalmente assunti da Francigena) appellate da Palazzo dei Priori.
Anche su quanto accaduto ieri le parti restano su posizioni inconciliabili. Quasi fossero protagoniste di due vicende diverse. Il sindaco Giulio Marini, di fronte alle critiche sulla modalità con cui la fine del rapporto è stata comunicata, ovvero cacciati da un momento all’altro, allarga le braccia: “Potevano essere convocati? Dal cda? Sicuramente, ma non so qual è la procedura in questi casi e sono sicuro che l’hanno seguita. Siamo di fronte a una sentenza che va rispettata. E fino a una nuova (il ricorso in Cassazione dei lavoratori, ndr) non ci sono oggettivamente margini per prendere decisioni in altro senso”. Quindi, il Comune avrebbe le mani legate.
E Francigena? Figuriamoci, tanto che il presidente del cda, Pierre Di Toro, nel mezzo di una lunga chiacchierata dice: “Noi siamo esecutori del Comune che decide sulla gestione del parcheggio. Tanto che ora senza quel personale ci troviamo in difficoltà e stiamo facendo numerose riunioni per capire come coprire il servizio. Saranno soluzioni temporanee perché non possiamo assumere, ma dovranno lasciare scoperti altri settori”. Non che la decisione di licenziare sia stata dell’ente, questo no. Anzi, sia Marini che Di Toro ribadiscono che non avevano alternative vista la sentenza emessa il 26 gennaio dalla Corte di Appello di Roma, inviata ieri alla società.
Ecco il passaggio a cui i due rimandano l’inevitabilità dell’allontanamento. “Non può darsi – si legge – e nemmeno immaginarsi (da parte della società, ndr) esecutività di sentenza (quella del Tribunale di Viterbo del febbraio 2012, ndr) che non contenga alcuna statuizione di condanna. Per questo motivo dichiara l’inammissibilità dell’istanza e condanna Francigena al pagamento delle spese processuali”. L’appello era stato presentato dal Comune “per chiedere – dice Di Toro – di congelare ogni altro tipo di pretesa di pagamenti da parte dell’Inps su pregressi e simili. Tanto i lavoratori stavano lavorando e quello era l’importante”.
Ma il tribunale di secondo grado della Capitale, secondo l’interpretazione sua e di Marini, con quella frase avrebbe indicato che “le assunzioni erano illegittime perché il diritto al lavoro sancito dal Tribunale di Viterbo era solo un’enunciazione di principio e non un obbligo da rispettare, non essendoci stata condanna”.
I lavoratori, però, vedono la decisione come l’ennesimo attacco di un ente che non li ha mai voluti. Il legale che li rappresenta, Benedetto Cimino, ribalta la storia: “Ci troviamo davanti a una sbalorditiva lettura della decisione della Corte d’appello. La vicenda – sostiene – è questa: Francigena ha chiesto la sospensione della sentenza del Tribunale di Viterbo, che la obbligava ad assumere i lavoratori. Ma i giudici hanno respinto seccamente questa istanza, accogliendo in pieno le mie argomentazioni. Il dispositivo è chiaro: la Corte dichiara “inammissibile” l’istanza inibitoria e condanna addirittura Francigena a pagare 2.250 euro di pena. Non una condanna alle spese, ma addirittura una sanzione pecuniaria che stigmatizza la natura defatigatoria dell’iniziativa processuale di controparte, d’intralcio del normale lavoro della Corte. L’ordinanza è pubblica e tutti la possono leggere. Non capisco come l’azienda possa essere giunta alla decisione di licenziamento dei miei assistiti”. Quindi, per l’avvocato ci sono tutti i presupposti per impugnare i licenziamenti e ricorrete ai decreti ingiuntivi. “Questo – aggiunge – comporta sicuramente un maggiore costo per società e Comune, che ne è proprietario, a fronte di una mancata prestazione lavorativa. In pratica si troveranno a pagare gli stipendi ai lavoratori senza poterli impiegare nello svolgimento di mansioni utili per i cittadini di Viterbo”. Ma tanto paga Pantalone. E che poi Pantalone siamo tutti noi è un’altra storia.
Dall’opposizione a Palazzo dei Priori duro attacco del capogruppo Udc, Paolo Barbieri: “Siamo di fronte a un ente che difende l’occupazione a parole, poi caccia i dipendenti nei fatti. Nel prendere la decisione – dice – non è stata neanche convocata la commissione per il controllo analogo. Ci riuniremo domani (oggi, ndr) a cose fatte. Voglio esaminare la sentenza ma resta che l’ente è gestito in maniera vergognosa. A decidere il da farsi sulle municipalizzate è sempre un ragioniere capo che, a questo punto, invito a salire, o meglio scendere in politica, visto che la fa già nella veste di tecnico”.
E anche dal Pd, il vicecapogruppo Alvaro Ricci, accusa: “Non entro nel merito della giustizia. Dico una cosa semplice: il Comune ha sbagliato prima nell’applicare la sentenza di febbraio o sta sbagliando ora nel disconoscerla, non ritenendola sufficiente a giustificare i rapporti di lavoro. Quindi o hanno commesso un abuso prima, quindi un’illegittimità contabile, oppure lo stanno commettendo ora. La cosa inaudita – dice – è che continuano a sbagliare sulla pelle di nove lavoratori”.
Insomma, da ciò che si può comprendere, siamo alle questioni di diritto. O di lana caprina, se volete. Ma intanto nove lavoratori (e altrettante famiglie) rischiano di morire di fame.